Il carrubo, a Gaeta, è rimasto con le radici fuori della terra, disseccate al sole come un grigio fantasma, e l’ulivo, antico orgoglio cajetano, ha il tronco e i rami neri della malattia che uccide, le sue olive, una volta famose si raccolgono a Itri. Queste le squallide testimonianze della lenta morte di Gaeta, partendo dall’entroterra, una volta ricco di una campagna rigogliosa, particolarmente fertile per lo straordinario clima mediterraneo di eterna primavera. Le vecchie case “naife” sulla Flacca sono state inghiottite, ad una ad una, dal consumismo edilizio, le ruspe sono vicine alla Raffineria, dove sono ancora case dall’intonaco bianco di calce, a testimoniare il tessuto connettivo umano di una città di pescatori e marinai, tessuto destinato a sfaldarsi e a scomparire entro breve tempo.
Si è costruito in fretta e male, l’architettura mediterranea, che qui aveva splendide testimonianze, è completamente sparita; è rimasto il vicolo Indipendenza, il budello dal “peperone facile”, che inghiotte turisti nei giorni di mercato, e i vicoli e le case fatiscenti della Gaeta medievale, fiore all’occhiello di una città dissacrata da costruttori, a cui si è permesso “tutto”, e da architetti che hanno distrutto le poche testimonianze del passato delle quali si è solo “custodi”, operando con restauri speculativi e consumistici.
Un esempio clamoroso è il Palazzo Vescovile in cui l’architetto “restauratore”, dimenticando in fretta i suggerimenti di Ricci e D’Ossat sul come operare nel ripristino e nel restauro di vecchi edifici, lo ha interamente ridipinto, inserendovi infissi anodizzati e condizionatori d’aria.
Le colline che dominavano lo splendido Golfo sono state letteralmente “piallate”, al loro posto, anonime case da periferia di città, si è così distrutto, o meglio si è “permesso” di distruggere uno dei paesaggi più belli d’Italia. Palazzo Caetani, nel vecchio porto, è come un fantasma fatiscente e pericolante, le splendide architetture povere, della piazzetta e del vicolo, che sembra stringerglisi accanto, per proteggerlo dalla tramontana, sono in parte puntellate, con le scale crollate, le finestre dissestate o murate; è qui che alcune famiglie, con il miraggio della nuova casa, resistono ai topi, all’umidità, alla mancanza dei servizi sociali più elementari.
Nel vecchio porto della “Finanza”, ricco di ocrati,i rimorchiatori, umili faticatori del mare, che tante volte nel passato ho dipinto, sono spariti, “inquinavano”, e con loro le vecchie barche da pesca e un paesaggio Gaetano dalla straordinaria iconografia pittorica. Sono finiti: gli uni a Porto Salvo, gli altri a far da valletti all’incrociatore americano nella rada del golfo, sede della Nato. Al loro posto barche da diporto, cutter cabinati; così la vecchia mescita, luogo d’incontro di pescatori ha fatto posto, in un palazzotto, che dopo il restauro è cresciuto di tre piani, a uno snack-bar, dove l’elite cajetana si incontra nell’ora dell’aperitivo.
All’Annunziata, nel vecchio Ospizio, dalle pareti incalciate, in cui la tramontana e l’umidità regnano, incontro dolcissimi volti di vecchi, che la società ha qui relegato come oggetti che ormai non servono più; incontro, in netta contrapposizione aLla scena di ragazzi che si drogavano in un bar, tra l’indifferenza e l’ignavia di tutti, che mi shockizzò una mattina, mentre prendevo il caffè.
Quella mobilissima luce, e quel colore che mi affascinarono, una trentina di anni fa, e che ancora oggi mi avvincono e mi stimolano ad una continua ricerca, dandomi emozioni sempre vive e nuove, sottolineano maggiormente in me il vuoto e l’abbandono della città, con un senso quasi metafisico, e mi hanno portato come artista e come uomo, con umiltà e amore, a questo grido di allarme e di denuncia, per una città che, come Roma, Napoli, Venezia, muore di eutanasia. |